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Abuso edilizio, l’onere probatorio sul carattere risalente del manufatto

Consiglio di Stato , sez. II, Sentenza n.1016 del 01/02/2024

In materia di abusi edilizi, su chi grava l'onere della prova relativa alla data di realizzazione delle opere?

Risponde sul punto il Consiglio di Stato, sez. II, con la sentenza n. 1016 del 1° febbraio 2024, ribadendo il principio secondo cui è il proprietario o il responsabile dell'abuso, oggetto di ingiunzione di demolizione, a dover dimostrare il carattere "risalente" del manufatto, ossia che la sua realizzazione è avvenuta in epoca anteriore alla cosiddetta legge ponte n. 761 del 1967.

Nel caso di specie, il Tar Puglia, sezione staccata di Lecce, è stato chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di una determinazione dirigenziale del Comune di Gallipoli, che aveva annullato un precedente permesso di costruire, emettendo contestualmente un’ordinanza di demolizione per opere giudicate abusive. La corte ha respinto il ricorso presentato, sottolineando l'incapacità del ricorrente di fornire prova della datazione antecedente delle opere in questione.

Il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza del Tar, evidenziando come il criterio di riparto dell’onere probatorio si basi sul principio di vicinanza della prova: spetta cioè a chi detiene informazioni e documentazione pertinenti, in questo caso il ricorrente, l'onere di dimostrare le proprie affermazioni.

Nella vicenda in esame è stata evidenziata la mancanza di collaborazione da parte del ricorrente, nonché la correttezza dell'Amministrazione, che ha agito in buona fede e nel rispetto del principio di leale collaborazione.

Abuso edilizio, prova della realizzazione prima del 1967, onere del proprietario o del responsabile dell’abuso, principio della vicinanza della prova

È il proprietario (o il responsabile dell’abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione che deve provare il carattere risalente del manufatto, collocandone la realizzazione in epoca anteriore alla c.d. legge ponte n. 761 del 1967 che con l’art. 10, novellando l’art. 31 della l. n. 1150 del 1942, ha esteso l’obbligo di previa licenza edilizia alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano. Tale criterio di riparto dell’onere probatorio tra privato e amministrazione discende dall’applicazione alla specifica materia della repressione degli abusi edilizi del principio di vicinanza della prova, in forza del quale spetta al ricorrente l’onere della prova in ordine a circostanze che rientrano nella sua disponibilità.

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Pubblicato il 01/02/2024

N. 01016/2024REG.PROV.COLL.
N. 00392/2022 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 392 del 2022, proposto da
L.C. e S. S.r.l., quest’ultima in persona del legale rappresentante in carica, rappresentati e difesi dall'avvocato Alessandro De Matteis, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia;

contro

Comune di Gallipoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Anita Stefanelli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

nei confronti

M.C. e A.M., non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, Sezione Prima, n. 00926/2021, resa tra le parti;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Gallipoli;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 gennaio 2024 il Cons. Stefano Filippini;

Nessuno è comparso per le parti e vista l’istanza di passaggio in decisione della causa senza discussione, depositata dalla difesa del Comune appellato;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe indicata il TAR Puglia, sede staccata di Lecce, ha respinto il ricorso con cui L.C. e S. s.r.l. avevano impugnato la determinazione dirigenziale del Comune di Gallipoli (n. 1288 del 24 maggio 2019 a firma del Responsabile della Sezione SUE - Settore n. 4) di annullamento del precedente permesso di costruire (d’ora in poi, PdC) n. 61/2016 del 14 luglio 2016 (oltre agli atti presupposti) nonché con motivi aggiunti la successiva l’ordinanza di demolizione di opere abusive n. 172 del 10 luglio 2020.

2. Ad avviso del TAR non avevano pregio le doglianze dei predetti ricorrenti, incentrate su plurimi profili di violazione delle norme sul procedimento edilizio, di violazione dell’artt. 21-nonies l. n. 241/1990, di violazione del principio del legittimo affidamento nonché sul preteso difetto di istruttoria e di motivazione adeguata, atteso che risultavano insuperate le criticità poste a base del provvedimento impugnato.

In particolare, dall’istruttoria comunale relativa al confronto della documentazione allegata dal C. a corredo di differenti pratiche edilizie presentate in Comune tra il 2015 e il 2016, erano emerso che: - l’elaborato grafico allegato al PdC non risultava conforme all’elaborato grafico allegato a precedente SCIA n. 3/2015, presentata in data 5 gennaio 2015, in quanto emergevano obiettive incongruenze tra la planimetria della SCIA n. 3/2015 e del PdC n. 61/2016 e quanto rappresentato nelle planimetrie catastali del 1939, in mancanza di atti probatori certi sulla dichiarata realizzazione ante 1942 delle opere non rappresentate nel catastale del 1939 e nella SCIA del 2015; - considerando l’avvenuto rilascio al C.L., in data 14 luglio 2016, del PdC n. 61/2016 (per “presa d’atto” in relazione a 3 abitazioni di antica costruzione site al piano terra di viale ......, si era reso necessario avviare un procedimento amministrativo di secondo grado per chiarire la ragione di detta discrasia e verificare la legittimità del PdC n. 61/2016; -quest’ultimo procedimento, anche a causa della mancata collaborazione istruttoria dei privati, aveva portato all’annullamento de quo atteso che le opere, a cui si riferiva il PdC in questione (per “presa d’atto” di costruzione risalente ad epoca anteriore al 1942), difettavano di adeguata dimostrazione circa detta datazione (con la conseguenza che la loro realizzazione posteriore richiedeva il previo rilascio di un valido titolo edilizio, nella specie carente).

2.2. Inoltre, sempre secondo il TAR, la giurisprudenza amministrativa poneva l’onere di provare la data di realizzazione delle opere abusive in capo a colui che aveva commesso l’abuso e solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di elementi effettivi e concreti poteva comportare, eventualmente, il trasferimento del suddetto onere di prova contraria in capo all’Amministrazione. Nella specie, a fronte di oggettive discrasie documentali circa la rappresentazione planimetrica del piano terra dell’edificio di causa e di ben quattro sollecitazioni da parte del Comune, rivolte al privato affinchè documentasse il profilo della risalenza temporale delle opere di cui al PdC, la parte privata era (pacificamente) rimasta silente, non offrendo cioè alcun contributo e/o chiarimento, omettendo in tal modo di adempiere all’onere di dimostrare la databilità delle opere in parola a un periodo anteriore al 1942 (tale cioè da escludere la necessità di un previo titolo edilizio legittimante); anche nella fase giudiziale gli argomenti di prova offerti dai ricorrenti (in particolare, quelli relativi alla presenza di una “porticina” su una certa rampa di scale e le dichiarazioni testimoniali del sig. C.) non erano idonei a introdurre dati certi e specifici sulla datazione delle opere e sulla loro precisa consistenza ante 1942.

A tanto in definitiva conseguiva la legittimità del provvedimento impugnato.

3. Avverso tale sentenza gli originari ricorrenti hanno proposto appello, articolando motivi che ripropongono le censure già sollevate in primo grado, focalizzandosi essenzialmente sui motivi sub 1) e sub 3) del ricorso di primo grado e sul motivo sub 4) dei “motivi aggiunti” e lamentando in particolare la violazione e falsa applicazione del d.p.r. n. 380/2001 e delle norme e principi in materia di procedimento edilizio; la violazione e falsa applicazione degli artt.1, 3 e 21-nonies l. n. 241/1990; la violazione dei principi di economicità, efficacia, adeguatezza e proporzionalità dell’azione amministrativa; la violazione del giusto procedimento; l’eccesso di potere per irragionevolezza ed inadeguatezza della motivazione, errore sui presupposti, travisamento dei fatti e difetto di istruttoria; la violazione e falsa applicazione degli artt. 31, 33, 37 e 38 dpr n.380/2001 e dei principi generali in tema di stato legittimo degli edifici ante 1942; l’eccesso di potere per irragionevolezza, errore sui presupposti, travisamento dei fatti, difetto di istruttoria e di motivazione adeguata.

In sostanza gli appellanti hanno denunciato il cattivo uso da parte dell’ente del potere di autotutela, a loro avviso viziato da deficit istruttorio e motivazionale, nonché l’erronea valutazione dei fatti quanto al riparto dell’onere della prova, avendo essi introdotto elementi “non implausibili” che avrebbero meritato specifica confutazione da parte dell’Amministrazione; hanno evidenziato che la comunicazione di avvio del procedimento di autotutela aveva identificato quale unico tratto di ravvisata discrasia tra la SCIA n.3/2015 ed il p.d.c. n.61/2016 il solo “ampliamento del perimetro dell’immobile”, effetto ascrivibile a due soli dei più ampi interventi interessati dal PdC (non si faceva menzione, cioè, dei soppalchi e delle modifiche interne realizzate negli appartamenti di causa); hanno sostenuto poi che il provvedimento impugnato non aveva svolto alcuna comparazione tra interesse pubblico e quello del privato alla conservazione dell’atto, a salvaguardia di quanto già realizzato; inoltre a loro avviso la realizzazione dei servizi igienici e dei soppalchi era attività trasformativa che poteva farsi rientrare nella “ristrutturazione edilizia leggera” per la quale era richiesta, ai sensi degli artt. 3, comma 1, lett. d), 10, comma 1, lett. c) e 22, comma 1. lett. c) del D.P.R. n.380/2001, la sola SCIA.

4. Si è costituita anche nel presente grado l’Amministrazione comunale, contrastando diffusamente l’appello.

5. Sulle difese e conclusioni rassegnate negli atti inseriti nel fascicolo telematico, la controversia è stata trattenuta in decisione all’esito dell’udienza pubblica del 16 gennaio 2024.

DIRITTO

6. L’appello è infondato alla stregua delle osservazioni che seguono.

6.1. Preliminarmente deve ricordarsi che, ai sensi dell'art. 101 c.p.a., nel processo innanzi al Consiglio di Stato il ricorrente è tenuto ad indicare in modo chiaro nell'atto di appello le critiche che egli rivolge contro i capi della sentenza gravata e le ragioni per le quali le conclusioni, cui il primo Giudice è pervenuto, non sono condivisibili, così che è inammissibile il mero richiamo delle censure sollevate con il ricorso di primo grado o la pedissequa riproposizione delle questioni e delle eccezioni articolate in quel grado laddove essere non siano accompagnate dalle necessarie puntuali critiche alla decisione del giudice.

6.2. Volgendo pertanto l’esame alle sole questioni oggetto di specifica contestazione e argomentazione nell’atto di appello, deve sottolinearsi che dette deuzioni non scalfiscono le ragionevoli conclusioni raggiunte dal TAR.

Infatti tutta l’articolata ricostruzione, offerta dagli appellanti, circa il contenuto dei plurimi interventi edilizi realizzati sull’immobile di causa (quelli di cui alla SCIA n.3/2015 e ad una serie concatenata di C.I.L., nn. 64/2016, 66/2016, 78/2016 e 82/2016), ma in tutt’altra parte dell’edificio rispetto alle tre abitazioni di causa, non contrasta in alcun modo il ragionamento svolto dal primo giudice, ancorato ad una pluralità di elementi che risultano correttamente desunti e condivisibili.

7.1. Deve in primo luogo condividersi il richiamo del TAR al consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr., tra le tante, Cons. Stato, II, 5 febbraio 2021, n. 1109 e 8 maggio 2020, n. 2906), secondo cui è a carico esclusivamente del privato l’onere della prova in ordine alla data della realizzazione dell’opera edilizia al fine di poter escludere al riguardo la necessità di rilascio del titolo edilizio; tale onere discende attualmente dagli articoli 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a. in forza dei quali spetta al ricorrente l’onere della prova in ordine a circostanze che rientrano nella sua disponibilità. Detto onere, prima ancora che di carattere processuale, vale nei rapporti tra l’interessato e l’Amministrazione, la quale in termini generali, in presenza di un manufatto non assistito da un titolo abilitativo che lo legittimi, ha solo il potere dovere di sanzionarlo ai sensi di legge (si vedano, al proposito, Cons. Stato, sez. VI, sentenze 2 luglio 2020, n. 4267, 7 gennaio 2020, n. 106, 18 ottobre 2019, n. 7072, e 6 febbraio 2019, n. 903).

7.2. Quanto poi alla correttezza del procedimento amministrativo di secondo grado avviato dal Comune e alla adeguatezza delle comunicazioni di avvio del procedimento di autotutela (contenente, in realtà, non solo il rilievo dell’ampliamento del perimetro dell’immobile, ma la ben più ampia contestazione dell’incongruenza tra le planimetrie in atti), deve considerarsi che l’ente locale, dopo aver individuato le oggettive discordanze tra la planimetria della SCIA n. 3/2015 (nella quale non figurano i soppalchi, i wc e altre opere interne degli appartamenti al piano terra), quella del PdC n. 61/2016 e quanto rappresentato nelle planimetrie catastali del 1939, aveva invitato i ricorrenti a fornire elementi probatori certi sulla dichiarata realizzazione ante 1942 delle opere non rappresentate nel catastale del 1939 e nella SCIA del 2015. In particolare aveva: a) comunicato al signor C.L. l’avvio del procedimento di verifica della legittimità del PdC n. 61/2016 con nota n. 2004 del 13 novembre 2017; b) inviato una seconda comunicazione di avvio del procedimento con nota del 26 luglio 2018, prot. n. 37337; c) invitato il signor C., ancora con nota del 17 ottobre 2018, prot. n. 54634, a chiarire le predette incongruenze; d) reiterato ulteriormente, con nota del 14 febbraio 2019, n. 8834, l’invito al predetto signor C. a dimostrare la effettiva consistenza e l’appartenenza degli ambienti che costituivano incongruenza tra gli elaborati allegati alla SCIA n. 3/2015 e il PdC n. 61/2016.

Non può pertanto fondatamente negarsi che l’Amministrazione si sia comportata correttamente, nel rispetto del principio di buona fede e di leale collaborazione, mettendo in modo più che ragionevole il privato in condizione di comprendere i profili sui quali verteva il procedimento di secondo grado; a fronte di tale attività vi è stata per contro la totale assenza di collaborazione e riscontri da parte del signor C..

E’ pertanto corretto e legittimo l’operato dell’ente locale, che ha proceduto all’annullamento di un permesso di costruire che si basava essenzialmente sulla circostanza (rimasta, appunto, indimostrata e, per giunta, contraddetta dalle richiamate dissonanti planimetrie) che la databilità delle strutture assentite nel 2016 risaliva a un periodo anteriore al 1942 (così da escludere la necessità del previo titolo edilizio legittimante).

7.3. Né le allegazioni probatorie introdotte dai ricorrenti in causa hanno potuto sanare il detto deficit dimostrativo, atteso che i riferimenti alla preesistente “porticina” rappresentata nelle foto in atti e le dichiarazioni testimoniali rese dal sig. G.C. in data 9 febbraio 2021 dinanzi al Tribunale di Lecce (in una diversa controversia), anche ammesso che possano essere considerate “non implausibili” (come dedotto dagli appellanti), non offrono tuttavia alcun obiettivo, adeguato ed inequivoco elemento dimostrativo circa l’esatta risalenza temporale e la precisa natura e consistenza planivolumetrica degli ambienti ove (ora) risultano ubicati i soppalchi, i bagni e le ulteriori modifiche alle strutture originarie di cui al PdC di causa; del tutto generico e indimostrato è anche il riferimento difensivo alla pretesa vaghezza e approssimazione dell’elaborato grafico associato alla SCIA n.3/2015.

7.4. Ugualmente non superata, nonostante il tentativo di ridurre la vicenda di causa a lite di dimensione più familiare e privatistica che pubblica, risulta l’oggettiva incongruenza tra le rappresentazioni dei luoghi contenute negli incarti funzionali alla presentazione della SCIA n. 3/2015 e all’ottenimento del PdC n. 61/2016; incongruenza che integra quanto meno una erronea rappresentazione dei luoghi (cioè falsa rappresentazioni di fatti non imputabile all'Amministrazione), ascrivibile esclusivamente al signor C. con riferimento alla propria istanza di PdC;, e costituisce, sotto altro concorrente profilo, un fatto idoneo, pacificamente, a esonerare l’Amministrazione dalla necessità di ravvisare uno specifico interesse pubblico all’annullamento del titolo edilizio, peraltro ravvisabile nell’interesse della collettività, rilevante ex art. 21-nonies l. n. 241/90, al rispetto della disciplina urbanistica.

Invero, la falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato, che comporta l'inapplicabilità del termine di diciotto mesi per l'annullamento d'ufficio, si configura quando l'erroneità dei presupposti del provvedimento non è imputabile (neppure a titolo di colpa concorrente) all'Amministrazione, ma esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave) del privato, dato che anche sul cittadino incombe pur sempre un obbligo di comportamento corretto ed in buona fede in adempimento dei doveri di solidarietà imposti dall' art. 2 Cost. (cfr., Cons. Stato, Sez. VI, 6 luglio 2023, n. 6615\2023).

7.5. Neppure meritano favorevole apprezzamento le censure relative al provvedimento demolitorio e alla pretesa applicabilità, rispetto alla realizzazione dei servizi wc e dei soppalchi, del regime proprio della c.d. “ristrutturazione edilizia leggera” per la quale è oggi richiesta, ai sensi degli artt. 3, comma 1, lett. d), 10, comma 1, lett. c), e 22, comma 1, lett. c), del D.P.R. n.380/2001, la sola SCIA.

Invero una simile lettura riduttiva dell’intervento edilizio de quo tende a parcellizzare le opere abusive e non considera che l’oggetto dell’annullamento d’ufficio è stato il PdC n. 61/2016 nel suo complesso, relativo alla “presa d’atto” di 3 intere abitazioni nell’attuale consistenza planivolumetrica; comunque le superfici aggiuntive a cui fanno riferimento gli appellanti costituiscono porzioni immobiliari per natura e destinazione fruibili dalle persone e tali da ampliare la superficie utile degli appartamenti, con conseguente aggravio del carico urbanistico e necessità di un permesso di costruire, così da legittimare la sanzione demolitoria irrogata.

9. In definitiva l’appello deve essere respinto.

10. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano al dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna gli appellanti in solido alla rifusione in favore del Comune appellato delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in complessivi € 5.000,00 (cinquemila), oltre accessori di legge, se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 gennaio 2024 con l'intervento dei magistrati:

Carlo Saltelli, Presidente

Francesco Frigida, Consigliere

Carmelina Addesso, Consigliere

Alessandro Enrico Basilico, Consigliere

Stefano Filippini, Consigliere, Estensore

L'ESTENSORE
Stefano Filippini

IL PRESIDENTE
Carlo Saltelli

IL SEGRETARIO

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