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Daspo urbano supera il vaglio della Consulta

Corte Costituzionale, Sentenza n.47 del 25/03/2024

Il Daspo urbano, introdotto dall'art. 10, comma 2 del Decreto-legge 20 febbraio 2017 n. 14 (c.d. Decreto Minniti), non costrasta con gli artt. 3, 16 e 117, primo comma, della Costituzione.

Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 47 del 25 marzo 2024, respingendo le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Firenze.

Il daspo urbano si configura come un divieto di accesso a specifiche aree urbane e alle infrastrutture dei servizi di trasporto. Questa misura può essere applicata dal questore a coloro che hanno commesso violazioni riportate nell’art. 9, commi 1 e 2 del decreto Minniti, quali l’impedimento dell’accessibilità e fruibilità degli spazi in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi pubblici.

La Corte ha chiarito che l’interpretazione dell’art. 10, comma 2, del Decreto Minniti deve escludere un possibile contrasto con i principi costituzionali, limitando l'applicazione del daspo urbano ai casi in cui esista un concreto pericolo di commissione di reati. Ciò significa che il concetto di “sicurezza” richiamato dalla norma deve essere inteso in termini di garanzia delle libertà dei cittadini da comportamenti criminosi, escludendo violazioni alla ragionevolezza e proporzionalità (art. 3 Cost.) e alla libertà di circolazione (art. 2 del Protocollo n. 4 alla CEDU).

La Corte ha inoltre ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale riguardante l’art. 9, comma 1, del decreto Minniti, sollevata per quanto concerne la scelta delle condotte sanzionabili con il daspo urbano. Tale scelta riflette una valutazione del legislatore, rientrante nella sua discrezionalità, finalizzata a identificare comportamenti che contribuiscono significativamente alla percezione di insicurezza, senza trascurare comportamenti penalmente rilevanti per l'applicazione di altre forme di daspo urbano previste dagli artt. 13 e 13-bis del decreto Minniti.

La Corte infine ha dichiarato inammissibili per difetto di rilevanza nel giudizio a quo, le questioni aventi ad oggetto l’ordine di allontanamento per 48 ore dal luogo di commissione del fatto, che ai sensi degli artt. 9, comma 1, e 10, comma 1, del decreto Minniti deve essere impartito al trasgressore dall’organo accertatore delle violazioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 9.

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SENTENZA N. 47

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 1, e 10, commi 1 e 2, del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017, n. 48, promosso dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, nel procedimento penale a carico di G. P., con ordinanza del 30 gennaio 2023, iscritta al n. 28 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2023, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 23 gennaio 2024.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 2024 il Giudice relatore Franco Modugno;

deliberato nella camera di consiglio del 24 gennaio 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 30 gennaio 2023, iscritta al n. 28 del registro ordinanze 2023, il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:

a) dell’art. 10, comma 2, del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017, n. 48, in riferimento agli artt. 3, 16 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU);

b) degli artt. 9, comma 1, e 10, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, in riferimento all’art. 16 Cost.;

c) dell’art. 9, comma 1, del medesimo decreto-legge, come convertito, in riferimento all’art. 3 Cost.

1.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del processo nei confronti di una persona imputata del reato previsto dall’art. 10, comma 2, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, per non aver osservato il provvedimento del Questore di Firenze che, ai sensi della medesima disposizione, gli aveva vietato di accedere per sei mesi nella stazione ferroviaria Santa Maria Novella, nonché nella piazza antistante e in due vie ad essa limitrofe.

Il rimettente riferisce altresì che, alla luce delle risultanze processuali, il provvedimento si basava sul rilievo che all’imputato era stata applicata, in tre precedenti occasioni, la sanzione amministrativa prevista dall’art. 9, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, con contestuale ordine di allontanamento dal luogo, per aver impedito l’accessibilità e la fruizione delle infrastrutture dell’anzidetta stazione: condotte dalle quali si era ritenuto che potesse derivare un pericolo per la sicurezza, anche in ragione del fatto che il loro autore risultava «gravato da precedenti di polizia per numerosi reati». Nelle predette occasioni, in particolare, l’interessato, violando i divieti di stazionamento nell’area ferroviaria, aveva richiesto, «con atteggiamento insistente e fastidioso», denaro alle persone intente ad acquistare titoli di viaggio presso le macchine emettitrici automatiche o che utilizzavano la scalinata di accesso alla stazione, impedendo così la regolare fruizione di tali macchine e delle aree interne dell’infrastruttura.

Prima che spirasse il termine di operatività del divieto di accesso disposto dal Questore, l’imputato era stato trovato dalle forze dell’ordine nella piazza antistante lo scalo ferroviario, senza fornire alcuna giustificazione della sua presenza in loco. Sussisterebbero, pertanto – ad avviso del giudice a quo –, gli estremi del reato contestato.

1.2.– Il rimettente reputa tuttavia pregiudiziale, rispetto all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, la verifica della conformità a Costituzione degli artt. 9, comma 1, e 10, commi 1 e 2, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito.

Secondo il giudice a quo, le questioni sarebbero rilevanti, giacché, ove sopravvenisse la dichiarazione di illegittimità costituzionale della normativa che fonda il potere del questore di adottare la misura di prevenzione la cui inosservanza è oggetto di accertamento nel giudizio principale, ciò varrebbe a «porre nel nulla» la misura medesima, con conseguente venir meno del reato.

1.3.– Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo osserva che il d.l. n. 14 del 2017, come convertito, nel prefigurare un complesso di interventi urgenti volti a salvaguardare la sicurezza delle città, ha introdotto, all’art. 9, nuove «[m]isure a tutela del decoro di particolari luoghi».

Il comma 1 di tale articolo assoggetta, in specie, a sanzione amministrativa pecuniaria chiunque, in violazione di divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, ponga in essere condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione delle infrastrutture dei servizi di trasporto ivi indicati. Contestualmente all’accertamento della condotta illecita, viene inoltre ordinato al trasgressore l’allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto: ordine che – come specificato dall’art. 10, comma 1 – ha una efficacia di quarantotto ore e la cui violazione comporta un’ulteriore sanzione amministrativa pecuniaria.

In forza del comma 2 dell’art. 9, il provvedimento di allontanamento è disposto, altresì, nei confronti di chi, nelle stesse aree, commetta gli illeciti di ubriachezza, atti contrari alla pubblica decenza, commercio abusivo, esercizio abusivo dell’attività di parcheggiatore o guardamacchine e vendita senza autorizzazione di biglietti di accesso a manifestazioni sportive.

Il comma 3 prevede, poi, che i regolamenti di polizia urbana possano individuare ulteriori aree urbane, aventi le destinazioni ivi elencate (presidi sanitari, scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei e via dicendo), alle quali si estende l’applicazione delle disposizioni di cui ai commi precedenti.

A propria volta, l’art. 10 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, dopo aver disciplinato, al comma 1, l’ordine di allontanamento adottato dagli organi accertatori ai sensi del precedente articolo (prevedendone in specie la trasmissione al questore), stabilisce, al comma 2, che «[n]ei casi di reiterazione delle condotte di cui all’articolo 9, commi 1 e 2, il questore, qualora dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza, può disporre, con provvedimento motivato, per un periodo non superiore a dodici mesi, il divieto di accesso ad una o più delle aree di cui all’articolo 9, espressamente specificate nel provvedimento, individuando, altresì, modalità applicative del divieto compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del destinatario dell’atto». La violazione del divieto è punita con la pena dell’arresto da sei mesi a un anno.

I citati articoli delineerebbero, quindi, in sostanza, una «fattispecie a formazione progressiva», nella quale le misure approntate a tutela della sicurezza urbana sono via via aggravate, fino a culminare – nel caso di violazione del provvedimento del questore (cosiddetto DASPO urbano) – in un reato contravvenzionale.

1.4.– A parere del giudice a quo, la normativa ora ricordata genererebbe plurimi dubbi di legittimità costituzionale. Essi investirebbero, anzitutto, la misura del divieto di accesso contemplata dall’art. 10, comma 2, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito.

1.4.1.– Il provvedimento del questore comporterebbe, infatti, una limitazione della libertà di circolazione del destinatario, inibendogli per un lungo periodo di tempo l’accesso ad alcune aree cittadine, di norma liberamente fruibili.

Nel garantire la libertà di circolazione dei cittadini, l’art. 16 Cost. fa salve, peraltro, solo «le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza». Escluso che nell’ipotesi in esame vengano in rilievo «motivi di sanità», quanto ai motivi di «sicurezza» il rimettente rileva come questa Corte abbia chiarito, fin dagli inizi della sua attività, che al termine «sicurezza» va attribuito il significato di situazione nella quale sia assicurato ai cittadini, per quanto è possibile, il pacifico esercizio dei diritti garantiti dalla Costituzione, senza essere minacciati da offese alla propria personalità fisica o morale: si tratta, dunque, dell’«ordinato vivere civile» (è citata la sentenza n. 2 del 1956).

La disposizione censurata, nel subordinare il divieto di accesso, oltre che alla reiterazione delle condotte di cui all’art. 9, commi 1 e 2, alla circostanza che «dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza», farebbe tuttavia riferimento a un concetto di sicurezza molto più ampio di quello ora indicato. L’art. 4 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, stabilisce, infatti, che per «sicurezza urbana» deve intendersi, ai fini del medesimo decreto, «il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione, anche urbanistica, sociale e culturale, e recupero delle aree o dei siti degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio, la promozione della cultura del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile, cui concorrono prioritariamente, anche con interventi integrati, lo Stato, le Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano e gli enti locali, nel rispetto delle rispettive competenze e funzioni».

Al riguardo, il giudice a quo ricorda come questa Corte – chiamata a pronunciarsi su leggi regionali per denunciata violazione del riparto di competenze di cui all’art. 117 Cost. – abbia sottolineato che il d.l. n. 14 del 2017, come convertito, ha accolto un’ampia accezione della sicurezza, che vede affiancata alla sicurezza in senso stretto (o primaria), costituente il nucleo duro della competenza legislativa esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., una sicurezza in senso lato (o secondaria), atta a ricomprendere funzioni intrecciate, corrispondenti a plurime competenze legislative di spettanza anche regionale (è citata la sentenza n. 285 del 2019).

Di là dagli aspetti inerenti al riparto di competenze, si sarebbe – secondo il rimettente – al cospetto di un concetto di sicurezza «onnivoro», che abbraccia, oltre agli interessi essenziali per il mantenimento di una ordinata convivenza civile, anche profili di carattere estetico o afferenti ai costumi, come il «decoro».

Vari elementi deporrebbero, d’altro canto, nel senso che la «sicurezza» cui allude l’art. 10, comma 2, debba essere intesa proprio in questo significato molto ampio: il Capo II del decreto, entro il quale la disposizione è collocata, fa espresso riferimento, infatti, nel titolo al «decoro urbano»; l’art. 9, che prevede le condotte la cui reiterazione legittima il provvedimento del questore, reca la rubrica «[m]isure a tutela del decoro di particolari luoghi»; la stessa natura di alcune di tali condotte evocherebbe interessi che esorbitano dai presupposti di un ordinato vivere civile; nella disposizione censurata, inoltre, il termine «sicurezza» non è accompagnato dall’aggettivo «pubblica», né associato al concetto di «ordine».

Si dovrebbe, quindi, concludere che la norma in discorso consente limitazioni alla libertà di circolazione in funzione di tutela di interessi (la sicurezza urbana) che trascendono la sicurezza cui ha riguardo l’art. 16 Cost., violando di conseguenza quest’ultimo.

1.4.2.– Il vulnus denunciato risulterebbe ulteriormente accentuato dal fatto che l’art. 10, comma 2, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, non esige neppure, ai fini dell’adozione della misura, che sussista un pericolo per la sicurezza, pur così latamente intesa, e cioè che sia probabile la verificazione di un pregiudizio per l’interesse avuto di mira, ma richiede semplicemente che dalla condotta tenuta «possa derivare pericolo per la sicurezza», rendendo quindi sufficiente «una mera possibilità non qualificata».

Ciò indurrebbe a dubitare della legittimità costituzionale della norma anche in riferimento al «principio di proporzionalità/ragionevolezza dell’intervento legislativo», desumibile dall’art. 3 Cost.: verrebbe, infatti, imposto un sacrificio a un diritto fondamentale senza che ciò sia strettamente necessario, essendo solo eventuale il pericolo per l’interesse che il legislatore intende tutelare (interesse delineato, per di più, «in termini particolarmente generici, quasi onnicomprensivi»).

1.4.3.– La descrizione in termini molto ampi e generici dei presupposti della misura lascerebbe, inoltre, all’autorità amministrativa eccessivi margini di apprezzamento, in contrasto con il principio affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia, proprio con riguardo alla libertà di circolazione tutelata dall’art. 2 Prot. n. 4 CEDU: principio secondo cui ogni norma che costituisca la base legale di un’interferenza nei diritti fondamentali della persona deve essere connotata da sufficiente precisione e determinatezza, sì da offrire effettiva protezione contro le ingerenze arbitrarie da parte delle autorità pubbliche.

Nella specie, la «non chiarissima» descrizione della condotta di cui all’art. 9, comma 1, il concetto «onnivoro o quanto meno ambiguo» di sicurezza recepito dall’art. 10, comma 2, e la circostanza che sia sufficiente un pericolo anche solo eventuale per la sicurezza stessa al fine di legittimare il provvedimento del questore, sarebbero tutti elementi che contribuiscono a rendere la norma non sufficientemente precisa e determinata, lasciando di conseguenza l’individuo esposto al sostanziale arbitrio dell’autorità amministrativa.

1.4.4.– Gli elementi dianzi indicati, di carattere letterale e sistematico, non consentirebbero, d’altra parte, una interpretazione della disposizione censurata conforme ai principi costituzionali evocati: si tratterebbe, infatti, «di stravolgerne la portata e non semplicemente d’interpretarla».

1.5.– Il rimettente dubita, in secondo luogo, della legittimità costituzionale della misura dell’ordine di allontanamento, disciplinata dagli artt. 9, comma 1, e 10, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito.

1.5.1.– A parere del giudice a quo, tale misura si porrebbe in contrasto, in modo ancor più evidente, con l’art. 16 Cost. Se l’art. 10, comma 2, subordina il provvedimento di divieto di accesso del questore, sia pure con le criticità dianzi indicate, alla sussistenza di un possibile pericolo per la sicurezza, le norme ora in esame, nel prevedere che l’organo accertatore ordini l’allontanamento del trasgressore per quarantotto ore dal luogo in cui è stata tenuta la condotta illecita – misura da reputare anch’essa limitativa della libertà di circolazione –, non fanno, per converso, alcun cenno a possibili motivi di sicurezza (o di sanità).

L’ordine in discorso – qualificabile, secondo il rimettente, come misura di prevenzione atipica – consegue quindi automaticamente alla rilevazione delle condotte di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 9, senza che l’organo accertatore abbia alcun potere di apprezzamento: profilo del quale, in fase di conversione del decreto-legge, lo stesso Servizio studi della Camera dei deputati aveva posto in evidenza la criticità, ricordando come questa Corte abbia più volte dichiarato l’illegittimità costituzionale delle presunzioni assolute di pericolosità sociale.

1.5.2.– Per altro verso, benché il giudizio a quo abbia ad oggetto il reato integrato dalla violazione del divieto di accesso disposto dal questore, e non già dell’ordine di allontanamento, la questione sarebbe – a parere del rimettente – egualmente rilevante.

Come già posto in evidenza, infatti, gli artt. 9 e 10 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, delineerebbero una «fattispecie a formazione progressiva», caratterizzata da un graduale inasprimento delle misure a tutela della sicurezza urbana. Ne seguirebbe che, indipendentemente dal dato letterale dell’art. 10, comma 2 – che collega il provvedimento del questore alla reiterazione delle condotte e al possibile pericolo per la sicurezza, e non pure ai precedenti provvedimenti di allontanamento –, qualora le disposizioni che contemplano tale ultima misura fossero ritenute costituzionalmente illegittime, «l’intero costrutto», e quindi anche la norma che contempla il provvedimento del questore, «perderebbe[ro] ragionevolezza».

1.5.3.– Anche in questo caso, inoltre, non sarebbe possibile una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme censurate, le quali impongono chiaramente all’organo accertatore di impartire l’ordine di allontanamento nel momento in cui rileva la condotta illecita, a prescindere da qualsiasi riferimento a pericoli per la sicurezza.

1.6.– Il rimettente ravvisa, infine, un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., nell’individuazione delle condotte illecite operata dall’art. 9, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito.

1.6.1.– Il legislatore ha, infatti, previsto l’ordine di allontanamento e il provvedimento di divieto di accesso nei confronti di chi, violando divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, tenga condotte che impediscano l’accessibilità e la fruizione delle infrastrutture dei trasporti: condotte che potrebbero non avere alcuna rilevanza penale, così come non hanno rilevanza penale le condotte, contemplate dal comma 2 dello stesso art. 9 – non incluso, peraltro, dal rimettente fra le disposizioni sottoposte allo scrutinio di questa Corte –, di ubriachezza, atti contrari alla pubblica decenza e via dicendo. Analoghe misure non sono invece previste a carico di coloro che, nelle stesse aree, commettano fatti ben più pericolosi per la sicurezza e penalmente rilevanti.

Le misure in questione si applicherebbero, così, al clochard che dorma in terra, in corrispondenza di uno degli ingressi della stazione ferroviaria, impedendo l’accesso a quest’ultima, o al questuante collocato davanti alla biglietteria automatica (come pure all’ubriaco, non necessariamente molesto, che viaggi a bordo di un tram e al venditore di oggetti minuti che operi nell’atrio di una fermata della metropolitana), mentre ne resta esente chi, nelle medesime aree, partecipi a risse o commetta fatti di minacce, percosse, lesioni, porto di armi bianche o di oggetti atti ad offendere senza giustificato motivo. Si tratta di reati per i quali l’arresto in flagranza non è consentito, o è consentito solo a talune condizioni, le quali potrebbero non ricorrere: sicché la funzione preventiva non potrebbe essere assolta dall’arresto.

Né a tale carenza potrebbe supplire la previsione dell’art. 10, comma 5, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, in base alla quale, nei casi di condanna per reati contro la persona o il patrimonio commessi nei luoghi e nelle aree di cui all’art. 9, la concessione della sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’osservanza del divieto, imposto dal giudice, di accedere a luoghi o aree specificamente individuati. Il divieto in parola potrebbe essere, infatti, disposto solo quando venga concessa la sospensione condizionale della pena e unicamente in rapporto a reati contro la persona o il patrimonio. Esso diverrebbe, in ogni caso, operativo solo con il passaggio in giudicato della sentenza, e quindi dopo un lungo lasso di tempo, quando invece, a fronte di condotte meno gravi, quali quelle descritte dai commi 1 e 2 dell’art. 9, il provvedimento è adottato dal questore in tempi prevedibilmente più veloci ed è immediatamente esecutivo.

1.6.2.– Il rimettente esclude, di nuovo, che sia possibile una interpretazione conforme a Costituzione, stante il dato testuale della disposizione censurata.

1.7.– A fronte della tipologia e della pluralità dei vizi denunciati, il giudice a quo ritiene conclusivamente di dover chiedere a questa Corte una pronuncia a carattere ablativo, e non già manipolativo, rilevando come essa non darebbe luogo a insostenibili vuoti di tutela per gli interessi tutelati.

2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate non fondate.

2.1.– Ad avviso della difesa dell’interveniente, le questioni sollevate in riferimento agli artt. 16 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 2 Prot. n. 4 CEDU) potrebbero essere agevolmente superate, sulla base di una diversa interpretazione della nozione di «sicurezza» cui ha riguardo l’art. 10 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito.

A tal proposito, l’Avvocatura dello Stato rileva che questa Corte, con la sentenza n. 195 del 2019, pronunciandosi sulla legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1, lettera a), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132 – che ha aggiunto all’elenco dei luoghi di cui all’art. 9, comma 3, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, i «presidi sanitari» e le «aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli» – ha affermato che la disposizione in questione persegue «la finalità di evitare le turbative dell’ordine pubblico nelle aree alle quali il regolamento di polizia può estendere l’applicabilità del DASPO urbano», e pertanto concerne la materia ordine pubblico e sicurezza, appartenente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, primo comma, lettera h), Cost.

La necessità di interpretare in senso restrittivo la nozione in discorso sarebbe sostenuta anche dalla giurisprudenza amministrativa, la quale ha ritenuto illegittimo il provvedimento di divieto di accesso adottato dal questore qualora la sua motivazione non renda palesi le ragioni per le quali la condotta contestata al trasgressore sarebbe idonea a causare un pericolo per la sicurezza pubblica.

Il concetto di sicurezza cui fa riferimento il citato art. 10 coinciderebbe quindi, in sostanza, con quello di «ordine pubblico»: il che renderebbe la disciplina censurata pienamente rispettosa del dettato dell’art. 16 Cost., escludendone, al tempo stesso, la paventata incompatibilità con la garanzia della libertà di circolazione assicurata dall’art. 2 Prot. n. 4 CEDU.

2.2.– Infondate sarebbero anche le censure prospettate dal giudice a quo in riferimento all’art. 3 Cost.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, per l’adozione del divieto di accesso sarebbe espressamente richiesto l’accertamento del pericolo per la sicurezza, quale requisito aggiuntivo rispetto alla reiterazione delle condotte che hanno dato luogo all’ordine di allontanamento: il che renderebbe privo di fondamento il dubbio di legittimità costituzionale afferente alla mancata previsione della necessaria sussistenza di un simile pericolo. Il controllo del giudice penale che, in sede di applicazione della norma che sanziona la violazione del provvedimento del questore, deve preliminarmente accertarne la legittimità, varrebbe altresì a scongiurare il rischio, prospettato nell’ordinanza di rimessione, che si irroghi una sanzione penale sulla base di una valutazione arbitraria della pericolosità del soggetto destinatario dell’ordine di allontanamento.

Anche la censura di violazione dell’art. 3 Cost. per disparità di trattamento rispetto a condotte più pericolose, talune delle quali penalmente rilevanti, risulterebbe priva di pregio.

In primo luogo, infatti, gli artt. 13 e 13-bis dello stesso d.l. n. 14 del 2017, come convertito, prevedono la possibilità di adottare un divieto di accesso a pubblici esercizi e locali di pubblico intrattenimento, nonché di stazionamento nelle immediate vicinanze degli stessi, nei confronti di autori di reati in materia di stupefacenti, contro la persona o contro il patrimonio.

In secondo luogo, poi, nel prospettare il vulnus costituzionale in parola, il giudice a quo avrebbe preso in considerazione tipologie di reato molto diverse, non aventi carattere abituale o reiterato. Tali condotte non sarebbero assimilabili ai comportamenti molesti tenuti in alcune zone «sensibili» delle aree urbane, presi in considerazione dalla disciplina censurata, i quali, pur non essendo penalmente rilevanti, per loro abitualità e reiterazione possono intralciare la fruizione del trasporto pubblico.

3.– L’Avvocatura dello Stato ha ribadito la propria richiesta e le proprie difese con successiva memoria.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, solleva tre distinti gruppi di questioni di legittimità costituzionale, concernenti le particolari misure introdotte dagli artt. 9 e 10 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito.

1.1.– Il giudice a quo dubita, in primo luogo, della legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 2, del citato decreto, in forza del quale, nei casi di reiterazione delle condotte di cui all’art. 9, commi 1 e 2, il questore, «qualora dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza», può disporre, per un periodo non superiore a dodici mesi, il divieto di accesso a una o più delle aree di cui all’art. 9 (cosiddetto DASPO urbano).

Ad avviso del rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto, anzitutto, con l’art. 16 Cost., in quanto, nel subordinare l’applicazione della misura alla sussistenza di un possibile pericolo per la sicurezza, farebbe riferimento a un concetto di sicurezza molto più ampio di quello contemplato dalla disposizione costituzionale quale ragione di possibili limitazioni alla libertà di circolazione: concetto da intendere, in base alle indicazioni di questa Corte, come garanzia della libertà dei cittadini di svolgere le loro attività al riparo da offese alla loro personalità fisica e morale. La misura prefigurata dalla disposizione in esame costituirebbe, infatti, uno strumento di tutela della «sicurezza urbana», quale definita dall’art. 4 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito: nozione che esorbita dal mantenimento dei presupposti dell’ordinato vivere civile, abbracciando anche profili di carattere estetico o attinenti ai costumi, quale il «decoro urbano».

Sarebbe violato, altresì, l’art. 3 Cost., per difetto di ragionevolezza e proporzionalità della misura, in quanto la norma denunciata non esige nemmeno che sussista un pericolo per la sicurezza così largamente intesa, e cioè che appaia probabile la verificazione di un pregiudizio per essa, ma richiede soltanto che vi sia la possibilità, non qualificata, di tale pericolo. Verrebbe, di conseguenza, imposto un sacrificio a un diritto fondamentale senza che ciò sia strettamente necessario, essendo meramente eventuale il pericolo per l’interesse che il legislatore ha inteso tutelare.

La norma censurata si porrebbe in contrasto, da ultimo, con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 Prot. n. 4 CEDU, concernente la libertà di circolazione, in quanto non individuerebbe con sufficiente precisione i presupposti di applicazione della misura. La «non chiarissima» descrizione della condotta di cui all’art. 9, comma 1, il concetto «onnivoro o quanto meno ambiguo» di sicurezza e il fatto che, ai fini dell’adozione del divieto di accesso, basti un pericolo anche solo eventuale per quest’ultima, attribuirebbero, infatti, margini di discrezionalità troppo ampi alle autorità amministrative, in contrasto con il principio affermato dalla Corte EDU nella sentenza 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia.

1.2.– Il rimettente dubita, in secondo luogo, della legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 1, e 10, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, i quali prevedono che, contestualmente all’accertamento delle condotte illecite di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 9, l’organo accertatore ordini al trasgressore l’allontanamento per quarantotto ore dal luogo in cui è stato commesso il fatto.

Tali disposizioni violerebbero in modo ancor più evidente l’art. 16 Cost., in quanto l’applicazione della misura in questione, limitativa anch’essa della libertà di circolazione, conseguirebbe automaticamente alla rilevazione delle condotte illecite, a prescindere da ogni collegamento con motivi di sicurezza (o sanità) e senza lasciare alcun margine di apprezzamento all’organo accertatore.

1.3.– Da ultimo, il Tribunale fiorentino censura l’individuazione delle condotte illecite suscettibili di dar luogo all’ordine di allontanamento e al divieto di accesso, operata dall’art. 9, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, reputandola contrastante con l’art. 3 Cost.

Sarebbe, infatti, irragionevole colpire con le misure in discorso chi, violando divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, tenga condotte che impediscano l’accessibilità e la fruizione delle infrastrutture dei trasporti – condotte normalmente prive di rilevanza penale – quando invece analoghe misure non sono previste nei confronti di chi, nelle stesse aree, ponga in essere condotte ben più pericolose per la sicurezza e penalmente rilevanti, quali partecipazione a risse, minacce, percosse, lesioni, porto di armi bianche o di oggetti atti ad offendere senza giustificato motivo.

2.– Prodromica all’analisi delle singole questioni è una sintetica ricostruzione del panorama normativo di riferimento.

Le questioni vertono sui due istituti – l’ordine di allontanamento e il divieto di accesso a specifiche aree cittadine – introdotti dagli artt. 9 e 10 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito (disposizioni successivamente interessate da plurime modifiche di segno ampliativo), nel quadro di un complesso di interventi urgenti finalizzati – secondo quanto si afferma nella premessa del provvedimento – «a rafforzare la sicurezza delle città e la vivibilità dei territori», nonché «al mantenimento del decoro urbano».

Gli istituti in parola – e particolarmente il secondo – assumono come archetipo il divieto di accesso inteso a contrastare i fenomeni di violenza nel corso delle manifestazioni sportive (DASPO), previsto dall’art. 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive) e ascritto, per communis opinio, al novero delle misure di prevenzione personali atipiche.

Nella specie, l’idea di fondo – espressa nella relazione al disegno di legge di conversione C. 4310 – è che uno dei fattori del degrado delle città sia rappresentato dall’occupazione di determinate aree pubbliche, particolarmente «sensibili» in quanto costituenti «punti nevralgici della mobilità», o comunque sia ad alta frequentazione, da parte di soggetti che, stazionandovi indebitamente e spesso svolgendo attività abusive o moleste, ne compromettono la libera e piena fruibilità, contribuendo con ciò a creare un senso di insicurezza negli utenti. Fenomeno in relazione al quale – sempre secondo la citata relazione – «si registra difficoltà o inopportunità di intervenire con forme esclusivamente sanzionatorie».

Le aree prese in considerazione a tal fine sono primariamente quelle serventi rispetto ai servizi di trasporto: in specie, le aree interne delle infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, nonché le relative pertinenze (art. 9, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito). È, peraltro, previsto che i regolamenti di polizia urbana possano estendere le misure in discorso ad ulteriori aree urbane “sensibili”, da essi specificamente individuate: in particolare, quelle «su cui insistono presidi sanitari, scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici», nonché quelle «destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli, ovvero adibite a verde pubblico» (art. 9, comma 3).

Il meccanismo di tutela è articolato.

L’art. 9, comma 1, assoggetta a sanzione amministrativa pecuniaria da cento a trecento euro chiunque, «in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi», ponga in essere «condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione» delle aree considerate. Contestualmente all’accertamento della condotta illecita, al trasgressore viene inoltre ordinato l’allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto. Come precisato dall’art. 10, comma 1, l’ordine è impartito per iscritto dall’organo accertatore, deve essere motivato e cessa di avere efficacia decorse quarantotto ore dall’accertamento. La sua violazione dà luogo all’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di importo doppio.

In forza del comma 2 dell’art. 9, il provvedimento di allontanamento è altresì adottato nei confronti di chi, nelle medesime aree, commetta gli illeciti di ubriachezza (art. 688 del codice penale), atti contrari alla pubblica decenza (art. 726 cod. pen.), esercizio abusivo del commercio (art. 29 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, recante «Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59»), esercizio abusivo dell’attività di parcheggiatore o guardamacchine (art. 7, comma 15-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante il «Nuovo codice della strada») e vendita abusiva di biglietti di accesso a manifestazioni sportive (art. 1-sexies del decreto-legge 24 febbraio 2003, n. 28, recante «Disposizioni urgenti per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive», convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2003, n. 88), ferme restando le sanzioni amministrative previste per tali illeciti dalle disposizioni richiamate.

L’art. 10, comma 2, stabilisce poi che, nel caso di reiterazione delle condotte indicate dai commi 1 e 2 dell’art. 9, «qualora dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza», il questore può vietare, con provvedimento motivato, al trasgressore di accedere, per un periodo non superiore a dodici mesi, a una o più delle aree in questione, «espressamente specificate nel provvedimento», individuando modalità applicative del divieto compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del destinatario. L’inosservanza del divieto è punita con l’arresto da sei mesi a un anno.

Il divieto ha una durata maggiore (da dodici mesi a due anni) e la sua inosservanza è punita con pena più elevata (arresto da uno a due anni) qualora le condotte siano poste in essere da soggetto condannato negli ultimi cinque anni, con sentenza definitiva o confermata in grado di appello, per reati contro la persona o il patrimonio (art. 10, comma 3).

3.– Ciò premesso, giova, per comodità di trattazione, prendere prioritariamente in esame la questione avente ad oggetto la misura dell’ordine di allontanamento, regolata dagli artt. 9, comma 1, e 10, comma 1, del d.l. n. 24 del 2017, come convertito: misura che il rimettente reputa incompatibile con l’art. 16 Cost., in quanto svincolata dalla verifica della sussistenza di motivi di sicurezza (o di sanità).

La questione si palesa inammissibile per difetto di rilevanza.

Il giudice a quo è, infatti, investito del processo penale nei confronti di una persona imputata della contravvenzione prevista dall’art. 10, comma 2, del citato decreto-legge, per aver violato il divieto di accesso in una stazione ferroviaria e nelle aree ad essa limitrofe disposto nei suoi confronti dal questore. Egli non è, dunque, chiamato ad occuparsi degli ordini di allontanamento che hanno preceduto tale divieto.

In base al chiaro dettato dell’art. 10, comma 2, presupposto del divieto di accesso è la «reiterazione delle condotte» previste dai commi 1 e 2 dell’articolo precedente, unitamente alla sussistenza di un possibile pericolo per la sicurezza. Di conseguenza, ove pure questa Corte dichiarasse l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che riguardano l’ordine di allontanamento, quale misura ulteriore rispetto alle sanzioni amministrative per esse comminate, la pronuncia non impedirebbe affatto all’istituto del divieto di accesso di operare, rimanendo perciò ininfluente nel giudizio a quo.

Rimane, comunque sia, la rilevanza della questione avente ad oggetto il solo art. 9, comma 1, sotto il profilo di cui si dirà infra al punto 6.

4.– Certamente rilevanti, per converso, sono le questioni che investono il divieto di accesso, di cui all’art. 10, comma 2, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito. Il riconoscimento dell’illegittimità costituzionale della misura travolgerebbe, infatti, anche la norma che ne incrimina la violazione e che il rimettente è chiamato ad applicare.

4.1– Quanto all’ammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 16 Cost., il rimettente muove dalla premessa che la misura in discussione implica una limitazione della libertà di circolazione del destinatario, inibendogli l’accesso, per un significativo lasso di tempo, ad aree urbane di norma liberamente fruibili da chicchessia. L’istituto dovrebbe confrontarsi, quindi, con la previsione della disposizione costituzionale evocata, la quale, nel garantire a ogni cittadino la possibilità di circolare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, fa salve le «limitazioni» che la legge stabilisce in via generale «per motivi di sanità o di sicurezza».

Al riguardo, il rimettente ricorda come questa Corte, occupandosi di altra misura di prevenzione, abbia ritenuto, sin dagli inizi della sua attività, che ai fini considerati deve attribuirsi «alla parola “sicurezza” il significato di situazione nella quale sia assicurato ai cittadini, per quanto è possibile, il pacifico esercizio di quei diritti di libertà che la Costituzione garantisce con tanta forza. Sicurezza si ha quando il cittadino può svolgere la propria lecita attività senza essere minacciato da offese alla propria personalità fisica e morale; è l’“ordinato vivere civile”, che è indubbiamente la meta di uno Stato di diritto, libero e democratico» (sentenza n. 2 del 1956).

La norma censurata, per converso, nel subordinare la misura alla sussistenza di un possibile pericolo per la sicurezza, farebbe riferimento – secondo il rimettente – a un concetto di «sicurezza» molto più ampio di quello ora indicato. Nel frangente, il sostantivo evocherebbe, infatti, il concetto di «sicurezza urbana», quale risultante dalla definizione offerta dall’art. 4 dello stesso d.l. n. 14 del 2017, come convertito: definizione che fa perno su nozioni, quali quelli di «vivibilità» e «decoro», evocative (specie la seconda) anche di profili inerenti all’estetica e ai costumi, componendosi poi di un elenco non tassativo («anche») di interventi per il perseguimento dei fini considerati nel quale convivono – come emerge dalla relazione al disegno di legge di conversione – un’idea di «sicurezza primaria», intesa alla prevenzione dei reati («prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio»), e un’idea di «sicurezza secondaria», volta alla rimozione di situazioni di degrado e al promovimento di fattori di coesione sociale («riqualificazione, anche urbanistica, sociale e culturale», «recupero delle aree o dei siti degradati», «eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale», «promozione della cultura del rispetto della legalità», «affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile»). Si tratterebbe, dunque – a parere del rimettente –, di un concetto «onnivoro», quasi «onnicomprensiv[o]»: in ogni caso, largamente esorbitante dalla salvaguardia delle condizioni per un ordinato vivere civile.

Ad avviso del giudice a quo, plurimi indici confermerebbero che la «sicurezza», avuta di mira dalla norma censurata, debba essere intesa proprio in questa ampia accezione: il Capo II del decreto, entro il quale la disposizione è collocata, fa espresso riferimento nel titolo al «decoro urbano»; l’art. 9, che prevede le condotte la cui reiterazione legittima il provvedimento del questore, reca a sua volta la rubrica «[m]isure a tutela del decoro di particolari luoghi»; la stessa tipologia di alcune di queste condotte richiama aspetti che esorbitano dai presupposti di un ordinato vivere civile; nell’art. 10, comma 2, il termine «sicurezza» non è accompagnato dall’aggettivo «pubblica», né associato all’ulteriore concetto di ordine. Alla luce di ciò, il rimettente esclude, quindi, che sia possibile una interpretazione conforme a Costituzione della disposizione in esame.

Tanto basta ad assicurare l’ammissibilità della questione.

5.– Nel merito, tuttavia, l’approdo ermeneutico del rimettente si palesa non suscettibile di avallo. Conformemente a quanto sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, infatti, nel contesto della norma sottoposta a scrutinio il termine «sicurezza» può – e deve – essere inteso in un senso più ristretto e coerente con la natura di misura di prevenzione personale atipica, generalmente riconosciuta all’istituto in discussione, e al tempo stesso in linea con il dettato costituzionale: vale a dire propriamente nel senso di garanzia della libertà dei cittadini di svolgere le loro lecite attività al riparo da condotte criminose.

Molteplici argomenti, di ordine testuale, logico e sistematico, convergono in questa direzione.

Il d.l. n. 14 del 2017, come convertito, consta di due Capi, il primo dei quali reca disposizioni in ordine alla «[c]ollaborazione interistituzionale per la promozione della sicurezza integrata e della sicurezza urbana». Entro tale Capo, la Sezione II si occupa specificamente della «[s]icurezza urbana»: formula della quale l’art. 4 offre una definizione «[a]i fini del presente decreto», ma che risulta, in fatto, impiegata esclusivamente nelle altre disposizioni che compongono la stessa Sezione (artt. 5, 6, 7 e 8). Non, invece, nella disposizione censurata, collocata nel Capo successivo, ove si fa riferimento alla «sicurezza» tout court: dal che è lecito inferire che il legislatore non abbia voluto chiamare in gioco la definizione del citato art. 4, calibrata sulla prospettiva della «collaborazione interistituzionale», ma abbia inteso riferirsi a qualcosa di diverso, in linea con le caratteristiche dell’istituto che andava a regolare.

Il titolo del Capo II del decreto, entro il quale trova posto la previsione censurata – «[d]isposizioni a tutela della sicurezza delle città e del decoro urbano» – milita, d’altronde, in senso opposto a quello ipotizzato dal giudice rimettente. Risponde, infatti, al canone ermeneutico di un legislatore razionale e non ridondante ritenere che l’espressione «sicurezza delle città» non sia stata nel frangente usata come sinonimo di «sicurezza urbana», giacché, se così fosse, non sarebbe stato necessario menzionare al suo fianco il «decoro urbano», che, in base alla definizione dell’art. 4, è una componente della «sicurezza urbana». Ciò, a prescindere dalla scarsa plausibilità dell’ipotesi che il legislatore, dopo aver fornito la definizione di una determinata locuzione, si avvalga nello stesso testo normativo di una formula diversa per indicare il medesimo concetto.

È vero, poi, che l’art. 9 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, reca la rubrica «[m]isure a tutela del decoro di particolari luoghi». Si tratta, però, della disposizione che prevede, per le condotte ivi indicate, la sanzione amministrativa pecuniaria e l’ordine di allontanamento, il quale prescinde dalla condizione del possibile pericolo per la sicurezza, richiesta invece ai fini dell’adozione del divieto di accesso, regolato dal successivo art. 10 sotto l’omonima rubrica. Se ne deve dedurre che quest’ultimo non costituisce, negli intenti legislativi, una misura a tutela del decoro, ma della «sicurezza delle città», nei più ristretti sensi dianzi indicati.

Ancora, la medesima locuzione presente nella disposizione censurata («possa derivare [un] pericolo per la sicurezza») compare anche nell’art. 13-bis del d.l. n. 14 del 2017, come convertito (aggiunto dall’art. 21, comma 1-ter, del d.l. n. 113 del 2018, come convertito), che prevede un’altra fattispecie di divieto di accesso in luoghi urbani, diretta in modo specifico a prevenire i disordini negli esercizi pubblici e nei locali di pubblico intrattenimento: fattispecie rispetto alla quale è indubitabile, anche alla luce dei presupposti della misura, che il vocabolo «sicurezza» debba intendersi nel senso di prevenzione dei reati. Un discorso analogo può farsi, altresì, con riguardo alla formula «per ragioni di sicurezza», presente nell’art. 13 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, a proposito dell’ulteriore figura di divieto di accesso finalizzata al contrasto dello spaccio di sostanze stupefacenti all’interno o in prossimità di locali pubblici o aperti al pubblico e di pubblici esercizi.

Come ricorda l’Avvocatura generale dello Stato, d’altro canto, questa Corte, occupandosi di questione inerente al riparto delle competenze legislative, ha già avuto modo di affermare che la disciplina del DASPO urbano persegue la finalità di evitare turbative dell’ordine pubblico nelle aree interessate, rientrando, perciò, nella materia «ordine pubblico e sicurezza», di competenza legislativa statale esclusiva ai sensi dell’art. 117, primo comma, lettera h), Cost.: materia alla quale vanno ascritte le disposizioni volte al «perseguimento degli interessi costituzionali alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza» (sentenza n. 195 del 2019).

In definitiva, quindi, affinché il divieto di accesso sia legittimamente disposto, non basta che la presenza del soggetto possa apparire non consona al decoro dell’area considerata, ma è necessario che la condotta sia associata ad un concreto pericolo di commissione di reati: la misura non deve, in conclusione, intendersi rivolta ad allontanare “oziosi e vagabondi”, come pure si era affermato nell’ampio dibattito parlamentare sviluppatosi in sede di conversione del d.l. n. 14 del 2017.

Cade, in questa prospettiva, la censura del rimettente di violazione dell’art. 16: intesa nei sensi ora lumeggiati, la norma in esame risulta compatibile con il precetto costituzionale evocato.

5.1.– Parimente non fondata è la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., per asserito contrasto con il principio di «proporzionalità/ragionevolezza».

Il Tribunale rimettente fa discendere il vulnus prospettato dal rilievo che la norma in discussione non richiede la sussistenza di un pericolo per la sicurezza, ma semplicemente che «dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza». Ai fini dell’adozione della misura, non occorrerebbe, dunque, che sia probabile la verificazione di un pregiudizio per l’interesse che si vuole tutelare – sia pur inteso, secondo il rimettente, nei sensi della «sicurezza urbana» di cui all’art. 4 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito – ma basterebbe una «mera possibilità non qualificata» di tale pregiudizio. Ciò renderebbe la misura non proporzionata: essa comprimerebbe un diritto fondamentale – la libertà di circolazione – senza che sia «strettamente necessario», dato che il pericolo per l’interesse tutelato è solo eventuale.

Anche in questo caso, la ricostruzione ermeneutica del giudice a quo – reputata novamente non superabile a favore di una interpretazione costituzionalmente orientata, stante il dato letterale – non può essere condivisa.

Posto che, per quanto detto, la nozione di «sicurezza» cui deve aversi riguardo è diversa e più ristretta di quella ipotizzata dal rimettente (supra, punto 4.1.), è sufficiente osservare che le misure di prevenzione, allo stesso modo delle misure di sicurezza, si basano, per loro natura, su un giudizio prognostico, di tipo probabilistico, sulla futura condotta del soggetto che vi è sottoposto. Ed è in questa ottica che la formula normativa in questione, pur sintatticamente non del tutto felice, va letta: l’uso del verbo servile («possa») si spiega con il fatto che si è di fronte a un pronostico su quanto è ben possibile che avvenga in futuro, e non già con un supposto intento legislativo di consentire la misura anche per arginare situazioni di pericolo remote o puramente congetturali.

Giova soggiungere che la norma richiede espressamente che il pericolo per la sicurezza emerga «dalla condotta tenuta» (non, dunque, dalla sola personalità dell’agente, desunta ad esempio dai precedenti penali). Affinché scatti la misura più incisiva del divieto di accesso il comportamento del soggetto deve risultare concretamente indicativo del pericolo che la sua presenza può ingenerare per i fruitori della struttura (ad esempio, in ragione dell’atteggiamento aggressivo, minaccioso o insistentemente molesto mostrato nei loro confronti).

Così interpretata, la disposizione si sottrae alla censura in esame.

5.2.– Le considerazioni dianzi svolte rendono piana la valutazione in senso similare della conclusiva censura di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 Prot. n. 4 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU: parametro che il rimettente reputa leso in ragione dell’asserita carenza di precisione e determinatezza della norma censurata nell’individuazione dei presupposti di applicazione della misura, la quale attribuirebbe eccessivi margini di discrezionalità all’autorità amministrativa, lasciando così l’individuo esposto al suo «sostanziale arbitrio».

A parere del Tribunale fiorentino, il deficit denunciato sarebbe il risultato della convergenza di tre fattori: la descrizione non ben definita della condotta di cui all’art. 9, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito (alla reiterazione della quale il divieto di accesso è collegato), l’ambiguità del concetto di sicurezza e il carattere solo eventuale del pericolo per quest’ultima.

Quanto al primo profilo, si deve però osservare come la condotta di cui al citato art. 9, comma 1 – la cui descrizione il rimettente reputa, in modo peraltro solo assertivo, «non chiarissima» –, sia individuata, per contro, in modo sufficientemente chiaro e puntuale. Si richiede, come già ricordato, che il soggetto, violando divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, abbia impedito (e non soltanto limitato, come nel testo originario del decreto-legge) l’accessibilità o la fruizione di aree infrastrutturali di servizi di trasporto, ovvero di altre aree cittadine specificamente individuate dai regolamenti comunali nell’ambito di categorie predeterminate. L’identificazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, come pure la determinazione degli esatti confini del concetto di impedimento dell’accessibilità o della fruizione delle aree in questione, costituiscono d’altronde problemi non eccedenti i normali compiti interpretativi affidati, in prima battuta, all’autorità amministrativa chiamata ad adottare la misura e, in seconda battuta, al giudice eventualmente chiamato a verificare la legittimità del suo operato.

Per l’applicazione del divieto, occorre, altresì, la reiterazione delle condotte, la quale, a propria volta, è definita in modo adeguato dalla norma generale di cui all’art. 8-bis della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), secondo cui si ha reiterazione quando, nei cinque anni successivi alla commissione di una violazione amministrativa, accertata con provvedimento esecutivo, lo stesso soggetto commette un’altra violazione della stessa indole.

Quanto, poi, agli altri due profili sotto i quali si manifesterebbe il supposto difetto di precisione e determinatezza della norma censurata, vale quanto osservato in precedenza.

Riguardo al concorrente requisito di applicabilità della misura, rappresentato dal pericolo per la sicurezza, va ribadito che tale sostantivo deve ritenersi evocativo, per le ragioni esposte (supra, punto 4.1.), non del dilatato concetto di cui all’art. 4 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, quanto piuttosto delle condizioni dell’ordinata convivenza civile, in particolare tramite la prevenzione dei reati. Mentre, per quanto attiene all’asserito carattere meramente eventuale – e perciò sfuggente – del pericolo che legittima il provvedimento, vanno richiamate le considerazioni precedentemente svolte circa il significato da attribuire alla locuzione «possa derivare pericolo per la sicurezza» (supra, punto 5.1.), tale da scongiurare il rischio paventato.

6.– Resta la conclusiva questione avente ad oggetto l’art. 9, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito: disposizione che, con specifico riguardo all’individuazione delle condotte illecite da essa operata, il rimettente reputa contrastante con l’art. 3 Cost., sul rilievo che sarebbe irragionevole colpire con le misure dell’ordine di allontanamento e del divieto di accesso condotte di impedimento all’accessibilità e alla fruizione delle aree delle infrastrutture di trasporto, normalmente prive di rilevanza penale, e non invece altre condotte costituenti reato e ben più pericolose per la sicurezza (quali partecipazione a risse, minacce, percosse, lesioni, porto di armi bianche o di oggetti atti ad offendere senza giustificato motivo).

La questione – che è rilevante, nella misura in cui l’individuazione censurata delimita anche i confini della misura del divieto di accesso (supra, punti 3 e 4) – non è, però, fondata.

Allo stesso modo dell’individuazione delle condotte punibili (ex plurimis, sentenze n. 212 del 2019, n. 79 del 2016, n. 229 del 2015 e n. 250 del 2010), anche la selezione delle condotte cui annettere misure a carattere preventivo del genere considerato rientra nella discrezionalità del legislatore, il cui esercizio è sindacabile, in sede di giudizio di legittimità costituzionale, solo ove trasmodi nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio.

Nella specie, onde contestare la ragionevolezza della scelta operata, il rimettente pone a raffronto fattispecie non omogenee e non utilmente comparabili. La selezione delle condotte alla cui reiterazione può conseguire la misura del divieto di accesso, effettuata tramite la norma censurata, è ispirata all’intento di individuare quelle tipologie di comportamenti che, sulla base dell’esperienza concreta, il legislatore ha ritenuto che contribuiscano maggiormente a generare un clima di insicurezza in determinate aree urbane, e che si caratterizzano per una indebita e prolungata occupazione di spazi nevralgici ai fini della mobilità o interessati, comunque sia, da rilevanti flussi di persone (supra, punto 2).

Come rilevato anche dall’Avvocatura dello Stato, il legislatore non ha mancato, peraltro, di prendere in considerazione, ai fini dell’applicazione di misure similari, anche fatti di diverso ordine e di diretto rilievo penale.

Di là dalla previsione del cosiddetto DASPO urbano aggravato nei confronti di chi ponga in essere le condotte di cui all’art. 9, commi 1 e 2, essendo stato condannato nell’ultimo quinquennio per reati contro la persona o il patrimonio (art. 10, comma 3), e di là dalla previsione per la quale, quando tali reati risultino commessi nelle aree di cui all’art. 9, la sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’osservanza del divieto, imposto dal giudice, di accedere ad aree o luoghi specificamente individuati (art. 10, comma 5), particolari figure di divieto di accesso ad aree urbane sono state poi introdotte, sempre sulla scorta dell’esperienza concreta, in funzione di contrasto dello spaccio di stupefacenti all’interno o in prossimità di locali pubblici o aperti al pubblico e di pubblici esercizi (art. 13), nonché ai fini della prevenzione di disordini negli esercizi pubblici e nei locali di pubblico intrattenimento (art. 13-bis). Misura, quest’ultima, che ha come presupposto l’avvenuta denuncia del soggetto per varie ipotesi di reato, comprensive di quelle evocate dal rimettente come tertia comparationis.

In questo quadro, la scelta espressa dalla norma sottoposta a scrutinio si sottrae, dunque, alla censura mossale dal giudice a quo.

7.– Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione avente ad oggetto gli artt. 9, comma 1, e 10, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, va dichiarata inammissibile; quelle concernenti l’art. 10, comma 2, vanno dichiarate non fondate, nei sensi di cui in motivazione; quella relativa al solo art. 9, comma 1, va dichiarata non fondata.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 1, e 10, comma 1, del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017, n. 48, sollevata, in riferimento all’art. 16 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 2, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 16 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 gennaio 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 25 marzo 2024

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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